La Suprema Corte di Cassazione è tornata di recente sull’argomento del licenziamento motivato dalle reiterate assenze per malattia per ribadire un orientamento consolidato che era stato ultimamente disatteso da una pronuncia di segno contrario della medesima Corte Suprema. Con la sentenza n. 16472 del 5 agosto 2015 la Corte ha chiarito che le assenze per malattia non possono essere utilizzate per suffragare un licenziamento giustificato - alla luce anche di altri parametri soggettivi quali l’imperizia, la negligenza, l’incapacità – da una insufficiente prestazione da parte del lavoratore, in quanto la malattia deve essere considerata esclusivamente ai fini del superamento del periodo di comporto. Reiterate assenze dal lavoro riconducibili allo stato di salute giustificano il legittimo esercizio del potere di risolvere il rapporto, secondo la Cassazione, solo a seguito del superamento del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro in costanza di malattia, quale previsto dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, determinato secondo parametri equitativi. La Corte riafferma tale principio in netta ed esplicita contrapposizione ad una precedente pronuncia della stessa Suprema Corte (n. 18678 del 4 settembre 2014) – che non aveva mancato di suscitare un ampio dibattito – con la quale era stata confermata la legittimità di un licenziamento intimato sul presupposto che le ripetute assenze “a macchia di leopardo” effettuate dal lavoratore, comunicate peraltro solo all’ultimo momento ed usufruite in prossimità dei giorni di riposo, dovevano considerarsi indice di scarso rendimento e andavano ad incidere negativamente sulla produzione aziendale. Entrambe le pronunce meritano di essere esaminate e valutate nel contesto, oggi molto attuale, di una ormai consolidata prassi in voga nei lavoratori dipendenti di presentare il certificato medico di malattia di lunedì (si parla del 30% secondo una ricerca effettuata nel 2012 dall’Osservatorio sulla certificazione di malattia dei lavoratori dipendenti privati e pubblici dell’INPS sulle informazioni disponibili in merito alla morbilità dei lavoratori dipendenti nell’intero territorio nazionale). La malattia, sotto l’aspetto giuslavoristico, è il caso più diffuso di sospensione dell’obbligazione di lavoro e determina, ai sensi del comma 2 dell’art. 2110 c.c., da un lato, il divieto per il datore di lavoro di licenziare il dipendente per l’intera durata del periodo di comporto, dall’altro, il diritto alla conservazione del posto di lavoro in capo al lavoratore. L’art. 2110 c.c. prevede, infatti, una disciplina speciale rispetto alla disciplina dei licenziamenti individuali di cui alle leggi n. 604/1966 e n. 300/1970 nonché rispetto alle regole generali di cui agli artt. 1256 c.c. (sull’impossibilità temporanea della prestazione) e 1464 c.c. (sull’impossibilità parziale della prestazione), indicando quale unica condizione di legittimità del recesso il superamento del periodo di comporto. Il licenziamento dovuto al superamento del periodo di comporto, quindi, ha sempre rappresentato una fattispecie tipica distinta rispetto allo schema della giusta causa e del giustificato motivo oggettivo e soggettivo (in dottrina, tra i molti, C. Cester, “L’estinzione del rapporto di lavoro”, in Diritto del Lavoro, Il rapporto indivi- ➛ Assenze “reiterate” e licenziamento • gabriele fava • Avvocato in Milano 4 Sintesi novembre 2015 Rassegna di giurisprudenza e di dottrina duale, Cedam 2008, pag. 370; in giurisprudenza, inter alia, Cass., Sez. Lav., 7 febbraio 2011, n. 2971; Cass., Sez. Lav., 28 gennaio 2010, n. 1861; Cass., Sez. Lav., 23 aprile 2004, n. 7730). Il licenziamento per scarso rendimento, invece, può rilevare tanto come giustificato motivo soggettivo, in presenza di un notevole inadempimento da parte del lavoratore (in dottrina, C. Cester, Diligenza e obbedienza del prestatore di lavoro, Milano 2007, 198 e ss.; G. Santoro Passarelli, Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, Milano 2014; in giurisprudenza, Cass., Sez. Lav., 1° agosto 2014, n. 17548; Cass., Sez. Lav., 31 gennaio 2013, n. 2291; Cass., Sez. Lav., 22 gennaio 2009, n. 1632), quanto come giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui il licenziamento prescinda dalla colpevolezza del lavoratore e venga intimato perché l’impedimento incide a tal punto nella vita dell’impresa da arrecare un notevole danno alla sua organizzazione e produzione o, comunque, in modo tale da determinare la perdita d’interesse alla prestazione da parte del datore di lavoro (Cass., Sez. Lav., 22 novembre 1996, n. 10826). La decisione della Cassazione (n. 18678 del 4 settembre 2014) in controtendenza rispetto all’orientamento consolidato aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimato al lavoratore colpevole di reiterate assenze “qualora sia provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente – ed a lui imputabile – in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente da una soglia minima di produzione”. Tale conclusione si reggeva sul presupposto che le reiterate assenze effettuate dal lavoratore, comunicate all’ultimo momento ed “agganciate” ai giorni di riposo, determinavano uno scarso rendimento ed una prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale. La ratio decidendi di tale pronuncia, che pure aveva suscitato un acceso dibattito dottrinale, era apparsa senz’altro condivisibile laddove aveva ritenuto l’entità numerica e la durata pluriennale delle assenze e le tardive modalità di comunicazione di volta in volta adottate di per sé ostative, per il datore di lavoro, a una proficua e utile prosecuzione del rapporto di lavoro. Palese era apparsa l’inversione di tendenza rispetto alla pronuncia della Suprema Corte del gennaio 2013, con la quale, in un caso analogo, si era affermato il primato assoluto dell’art. 2110 c.c.: “la malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (c.d. eccessiva morbilità), è soggetta alle regole dettate dall’art. 2110 c.c., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali…” (Cass., Sez. Lav., 23 gennaio 2013, n. 1568). La Cassazione, con la sentenza n. 16472 del 5 agosto 2015, torna sul tracciato di tale orientamento non ritenendo censurabile l’utilizzazione impropria delle assenze da parte del lavoratore. Ci si auspica, tuttavia, che l’accennata inversione di tendenza sul tema dell’eccessiva morbilità non resti un caso isolato e venga ripresa in maniera conforme dalla Suprema Corte, la quale, attraverso l’applicazione a casi analoghi dell’acritico schema dell’omesso superamento del periodo di comporto, trascura il problema, molto sentito nel mondo del lavoro, dell’uso improprio ed abnorme delle assenze per malattia nel rapporto di lavoro.
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